Oggi ho portato la mia famiglia in centro città, a vedere le luci di Natale.
Questo è veramente uno strano Natale.
Pochi giorni fa leggevo l’appello di un giovane padre, professore d’inglese, che scriveva dalla casa dov’era chiuso con la propria bimba, nella morsa di bombardamenti e violenza che ormai sembravano lasciare ad entrambi ben poche speranze di sopravvivere.
Avrei potuto essere io, assediata e quasi ormai soffocata in una spirale di morte, in un incubo che di mondo civile, di modernità quasi perfetta “a misura d’uomo“ non ha proprio niente.
Sono nata e cresciuta in un dopoguerra in cui mi hanno insegnato che il mondo aveva imparato la lezione.
Rigurgiti di cieca violenza, lotte per il potere costellavano ancora i nostri continenti, ma un’umanità convalescente e più consapevole muoveva passi verso parole e gesti di pace.
Quando, ragazzina, pensavo che il 2000 ci avrebbe portati a progressi da fantascienza, forse in parte avevo ragione.
La tecnologia contemporanea ci permette di entrare in contatto immediato con chi si trova in paesi lontani e ci fa entrare nelle maglie di una rete di connessioni globali che ci rendono tutti più fratelli.
Scambiamo via internet opinioni, immagini del nostro quotidiano, mescoliamo culture, condividiamo emozioni: abbiamo tantissimi amici che dalla rete dialogano con noi.
Forse da ragazza non avrei mai sperato tanto.
Per capirci nel web parliamo inglese.
La lingua inglese, da retaggio post-coloniale a espressione di chi aveva vinto il nazismo con la democrazia, ora ci permette di capire l’Altro, mescolando accenti e storpiature, ma sempre in grado di dire, di far conoscere, di sapere.
Ed è attraverso un messaggio in inglese che un ragazzo pallido, con lo sguardo stanco e sconvolto, dice all’obiettivo del proprio computer che forse non arriverà a domani, che fra poco verrà ucciso.
E chiede aiuto. Nell’idioma internazionale, attraverso una rete creata per unirci, un ragazzo resta connesso, una voce chiama altre voci.
Ed io, punto distante in una giungla di congiunzioni, ricevo il messaggio.
Come me tanti altri, guardando un volto dallo schermo che in questo preciso istante ci parla, sentiamo dentro la solitudine di lui e misuriamo tutta la nostra impotenza.
Ora è un volontario che chiama, è un appello all’Europa: vicina, popolata, densa di lavoro e di progresso.
Ed è dall’Europa che ricevo il richiamo, dall’Italia; ascolto, e mai tutto mi è sembrato così immobile.
Poi alcune immagini di strade vuote, di autobus che dovrebbero allontanare i civili dalla città di Aleppo, Siria, dove attraverso assedio e guerra si gioca una partita dello scacchiere politico-economico mondiale.
Una bambina in rifugio, un gruppo di orfani: mi guardano in questo preciso istante, virtuali e disperatamente reali.
Qualcuno grida qualcosa in una lingua che non capisco, poi intravedo il simbolo della Croce Rossa svizzera.
Si sovrappone un volto: dove eravate? Perché non ci avete aiutati? Ormai è troppo tardi.
Le inquadrature si confondono.
Ora i messaggi sono solo scritti, e brevi.
– E’ terribile seguire un’agonia in diretta – penso. Ma perché agonia?
Il professore, la bambina, il volontario forse sono nel gruppo che ho intravisto la mattina dopo su uno dei convogli che è riuscito a lasciare la città.
O forse sono in quella massa confusa che tentava di avviarsi a piedi, in quelle strade segnate dalla guerriglia e dalle bombe.
“Vi aspettiamo. Dove siete? “
Ci hanno chiamati, mi hanno chiamata.
Come cittadina d’Europa, come persona di un mondo che vuole essere civile, sono stata chiamata e non ho saputo rispondere.
Allora mi chiedo: dobbiamo soffrire così, divisi e resi immobili dalla nostra impotenza, o possiamo invece scoprire che siamo tanti, e forti, a volere la stessa cosa.
Che le mani si uniscano alle voci e la volontà della gente, quella vera, inondi la rete e le frontiere di una energia che sola li può salvare, ci può salvare.
Giulia Remorino Ibry
Milano, Dicembre 2016