Qualche mese fa mi sono imbattuto in un documentario chiamato “The Red Pill”, lungometraggio trattante l’argomento del movimento maschilista, che in America sta guadagnando sempre più consensi. Il documentario è diretto da Cassie Jaye, giovane regista che a inizio film si definisce una femminista. Inizia poi un lungo viaggio (che la regista chiamerà la discesa nella tana del Bianconiglio) tra interviste, dati, immagini di manifestazioni e conferenze che approfondiscono innanzitutto la storia del movimento maschilista in America, seguito dalla controparte del movimento femminista. A supporto di uno o dell’altro movimento scorrono dati, teorie, fatti di cronaca e giudiziari.
La tesi da cui parte il maschilismo è di tipo antropologico: nella cultura lo stereotipo di genere maschile è associato alla sopravvivenza di tutti, in una logica “prima le donne e i bambini”. Il maschio è stato eletto come designato per andare in guerra, far lavori pesanti, rischiare di più in generale. Tra i molti dati a supporto vi è la maggior probabilità di morte sul lavoro, di suicidio, di alcoolismo. Sono riportati anche dati legati all’accoglimento da parte di uomini sfruttati, abusati o danneggiati a livello fisico dalle donne: molte volte non risultano credibili, se non vengono addirittura derisi.
Questo viaggio diventa come un reportage di guerra, dove dalle due barricate si sparano slogan, invettive e insulti: riassumendo in maniera molto brutale le femministe accusano i maschilisti di essere uomini spaventati dal potere della donna e di voler ristabilire una struttura patriarcale con la femmina in posizione di inferiorità; al contrario i sostenitori della voce maschilista si vedono come oggetti usati dalle donne per i loro scopi, presi in considerazione solo per lo status socio-economico che possono far acquisire.
Il documentario può avere tanti difetti, ma credo sia molto apprezzabile quando appare evidente il tentativo di conciliare i due movimenti, ovviamente inscritti in un’ottica costruttiva e ragionata: entrambi i generi devono trascendere da alcuni stereotipi, e insieme dovrebbero cercare di abbatterli. Questa ottica accennata però non appare molto evidente dall’accoglienza del film: molte proiezioni sono state cancellate, se si effettua una breve ricerca online molti siti italiani si schierano apertamente a favore o contro la pellicola. Maschilismo e femminismo: una battaglia ancora aperta?
Da quello che appare sembra proprio di sì. Non voglio addentrarmi sulla correttezza o le prese di posizione del documentario, e nemmeno sulla questione della difesa dei diritti del proprio genere sessuale ma vorrei, in modo sicuramente un po’ moralistico e antiquato, ricordare qualcosa che sembra un po’ mancare nella pellicola e nei dibattiti online: il buon senso. Ognuno può manifestare per una buona causa, ma questo deve essere occasione di manifestare odio, pregiudizio e cameratismi? Non è tendenzioso leggere alcuni dati alla luce puramente statistica senza tenere conto di variabili biologiche (credo di non fare scalpore dicendo che non mi sorprende che il maggior numero di morti sul lavoro sono di individui maschili: per natura gli uomini sono generalmente portati a lavori più a rischio, tra cui la carriera militare)?
Il dibattito rimane aperto, ma reputo che sia bene aprirlo sempre tenendo conto dei nostri residui non risolti, che possono inficiare il modo di vedere noi stessi e la diversità che ci circonda.
Marco Aldegheri