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In questo mondo  martoriato dal Covid, la situazione dei Migranti, di chi cerca di sfuggire ad una realtà terribile e minacciosa per rifugiarsi in un altro Paese, è materialmente e psicologicamente drammatica. Il rifugiato che entra in terapia di sostegno psicologico è traumatizzato due volte: da ciò che ha subito nel Paese d’origine, al senso di prigionia  d’isolamento di disagio tipico di chi vive una Pandemia.
Come aiutare the Refugee?
Prima di tutto ricordando che in ognuno di noi c’è un rifugiato. Non credo esista popolo al mondo che non abbia, nel suo passato, una storia di migrazione.
E quando abbandoni un luogo d’appartenenza segui un sogno, una speranza o semplicemente l’istinto di sopravvivenza di fronte allo sterminio dei tuoi, alla morte certa.  E la ricerca di questa vita nuova, diversa, propria la vediamo nello sguardo del rifugiato fin dal primo colloquio. Quando gli occhi si cercano è il senso di sradicamento , l’ansia di riconoscimento che entrano in noi a trasmetterci insicurezza, a destabilizzare un intervento di sostegno da noi, base sicura, all’Altro che non ha nulla.
Spesso questo spaventa, il Rifugiato mette in crisi consolidate certezze perché la sua inquietudine è anche la nostra, e scava a fondo nella Storia. Allora può scattare il pregiudizio, il bisogno di difendersi attraverso la distanza di una diagnosi che ci dà il potere del controllo, oppure il muro di una tecnica che sostituisca un’empatia troppo difficile da gestire.
Quando succede che entriamo lo sguardo di lui aprendo il nostro, e il guardarci per capirci e riconoscerci è il codice di scambio fondamentale – al di là delle barriere linguistiche –  allora veramente comincia lo scambio terapeutico, lo spazio  per una analisi e una comunicazione possibili, in un contesto di reciproco adattamento e crescita.
Il mediatore culturale, il traduttore, servono poco quando si è aperta la via.
Non siamo presenti per sperimentare, ma per partecipare ad un processo  d’integrazione.
Mai come in questo momento storico di totale incertezza, la vicinanza e l’alleanza empatica ci guidano lungo la strada della terapia.
Le immagini e i suoni parlano al profondo risvegliando echi precedenti il trauma migratorio, ad essi ci affidiamo per esplorare con lui, guidandolo nei momenti di massimo sgomento, di perdita del Sé.
Da lì si alternano frammenti del puzzle del passato a dolorose schegge di presente, spesso  fatte di paura, di sussulti di minaccia subita, di cieco silenzio impotente.
E ci saremo solo se avremo l’umiltà di metterci in ascolto, di lavorare sull’onda di un contro-transfert in cui ci esponiamo per trovare l’Altro, e ritrovarci.
Il cammino non sarà mai completo, ma darà a Lui l’apertura reale di una vita , a noi una nuova nascita verso un senso più Alto del nostro operare.

Giulia Remorino Ibry.