Select Page

Vorrei condividere la mia esperienza come psicologo in una RSA lombarda. So che in questo periodo affermare di lavorare in una casa di cura per anziani in Lombardia porta dietro tutta una serie di forte emozioni (temo la maggioranza negative), ma in questi mesi il ruolo delicato che mi è stato dato ha rappresentato un’esperienza su cui ragionare: per me per capire di più del mio lavoro, per gli altri per ragionare su alcuni meccanismi psicologici in cui questa emergenza sanitaria ci ha posto.
Dopo l’esplosione della situazione l’ RSA in tempi rapidi ha chiuso gli accessi ai non dipendenti: dalla struttura piena di volontari, di amici, di parenti si passa a un luogo chiuso, dove entrare ha il chiaro significato di “stai affrontando una situazione non convenzionale” (igienizza le mani, mascherina, prova temperatura, subito cambio con la divisa, camice ecc.). Pensiamo agli anziani: dai saloni pieni a solo operatori con tutti i dispositivi di protezione.
Si inizia subito con le chiamate e le video chiamate: a un certo punto rimango l’unico a poterle fare, la struttura è grande e quindi a ciclo continuo mi devo dedicare a questo. Se gli anziani lucidi mi ringraziano per averli messi in contatto con i loro cari, la situazione cambia per coloro affetti da demenza: “ma perché me lo chiami ma non gli dici di venire? Mi ha abbandonato qua…”.
I contatti non sono del resto sempre semplici: sono pochi gli ospiti a cui si possa lasciare cellulare o tablet e avere una conversazione convenzionale; in tanti altri vi è il deterioramento cognitivo, la poca stabilità emotiva, o anche solo l’orecchio un po’ duro: mi trovo insomma a far parte della conversazione, e quindi a conoscere i parenti, a chiacchierare con loro, a tranquillizzarli, anche a essere pronto ad ascoltarli se mi dicono che le cose all’ esterno vanno male (ad esempio qualche caro malato di Coronavirus all’esterno).
Dopo un po’ di tempo con alcuni si stabilisce anche un bel rapporto, seppur solo telefonico o in video chiamata: “ah, l’appuntamento fisso del Mercoledì mattina, che piacere sentirLa!”, “cosa vuole come regalo per la gentilezza, una bottiglia di vino va bene?”, “Marco allora, cosa mi racconti? Stai bene tu?”. Inizio anche a scoprire delle loro abitudini, delle preferenze, degli argomenti caldi.
La situazione non è però solo così bella ed emozionante: ammetto che c’è stata tanta maleducazione, tante persone che pretendevano, parenti che mi hanno anche posto minacce per mia negligenza da loro supposta; in alcuni casi il contatto con il caro sembrava quasi l’occasione per poter accendere una miccia, per potersi sfogare, per poter far urlare un disagio non altrimenti esprimibile.
Lo stesso avviene con gli ospiti: qualcuno mi ringrazia, altri mi vedono come un’ancora di salvezza; c’è chi dice che prega per me, chi afferma di volermi bene, ma anche chi, in maniera neanche troppo velata, mi dice di essere in collera per dover dipendere da me, dalla mia disponibilità oraria, dalle mie risorse.
Mi rendo conto di essere un ponte di comunicazione: sono tra due mondi, quello del fuori e quello del dentro, e devo continuamente cercare di farli dialogare. Innanzitutto per gli ospiti: difficile far capire che in quarantena tutti non potevamo uscire, quando l’anziano che urla “è come se fossimo in prigione!” però poi ti vede uscire dalla struttura a fine lavoro.
Anche per i parenti: io potevo essere colui che chiariva cosa stesse succedendo in un posto chiuso, e quindi forse anche pieno di imbrogli e raggiri che non si possono vedere! Quante volte mi è stato chiesto: “ma gli date da mangiare?”, come se non badassimo più ai loro cari…
Ma anche senza sospetti o cattiverie, la curiosità giustamente c’era: come sta il mio caro? Ma ora come sono organizzate le giornate? Ci sono dei cambiamenti?
Mi rendo conto che anche le mie emozioni sono amplificate: mentre in precedenza ogni attacco o buona parola da parte di un parente veniva pesata in maniera diversa, ora ci ragiono su molto (del resto anche io sono in lockdown, ogni altro lavoro è per me sospeso: per un bel periodo l’unica mia occupazione è stata proprio solo quella dell ’RSA).
Negli ultimi tempi l’RSA ha deciso di organizzare degli incontri, dove ovviamente il parente sta all’ esterno, l’ospite all ’interno, ci sono delle distanze considerevoli, tutte le protezioni del caso. Ma le dinamiche sono le stesse, se non più amplificate: in pochi minuti il parente deve comunicare con il caro, ci sono le difficoltà (sempre l’ipo-acusia in primis) e io mi trovo ad essere il responsabile degli incontri (li organizzo, stendo il protocollo). Ma sono comunque sempre il ponte, o come mi ha apostrofato una cara collega, la cerniera. Una cerniera tra un mondo esterno e uno interno, ognuno con i suoi fattori belli e brutti. Una cerniera che diventa anche il portatore di conflitto, di dubbi, di incertezze. Una cerniera che ha dovuto in maniera delicata cercare di unire due mondi, ognuno con le proprie regole, ma con sentimenti maturati nel corso degli anni.
Senza andare per retoriche analogie (lo psicologo cerniera del razionale e dell’inconscio, del bambino interno e dell’adulto, dell’immagine che ci hanno dato i genitori e di come vorremmo invece essere) credo che la riflessione si possa incentrare su come, su certi mondi che sembrano tanto distanti, la tentazione sia quella di esternalizzare, di cercare un colpevole: come posso adirarmi con una pandemia che mi ha impedito di vedere come al solito mia madre in casa di riposo ogni giorno? Posso non arrabbiarmi per il fatto che vedo mia nonna al di là di un plexiglass e che non mi sente bene?
Il ruolo delle professioni di aiuto è anche questo: essere parafulmine di alcuni stati emotivi, cercando però poi di cucire mettendo il filo tra due stoffe diverse, proponendo un unico tessuto armonico.
Credo che la quarantena ci abbia messo in contatto con dei nostri aspetti più profondi, delle volte anche i più fragili: a noi sta la capacità di rendere la questione NOSTRA oppure DELL’ALTRO. Ma forse, vedendo nell ’altro uno come me (del resto NESSUNO è sfuggito all’ emergenza sanitaria, vorrei sottolineare) la comunicazione, più che conflittuale, risulterebbe produttiva e vero canale di vicinanza.

Marco Aldegheri