La tragedia del Canale di Sicilia che ormai fa parte del nostro quotidiano, dovrebbe farci riflettere sulle cause che spingono folle di disperati a lasciare i propri Paesi di origine, per imbarcarsi in viaggi che si trasformano troppo spesso in atroci tragedie.
Proprio per chiarire le idee di base su rifugiati e migranti, alla fine di settembre 2016, si è svolto a Milano il convegno “Il secolo dei Rifugiati Ambientali”, un’intensa giornata organizzata da Barbara Spinelli e dal gruppo GUE/NGL del Parlamento Europeo.
Le principali domande a cui cercare di dare una risposta, anche per capire meglio il fenomeno che non possiamo ignorare: chi sono i migranti, quanti sono, da dove scappano, che trattamento ricevono nei paesi in cui si rifugiano? E poi, perché scappano?
Le principali cause di migrazione:
– Politiche – rifugiati politici che fuggono da guerre e persecuzioni
– Economiche – migranti che cercano un miglioramento delle proprie condizioni economiche
– Ambientali – migranti che si spostano dalle zone di origine a causa delle mutate condizioni ambientali che non permettono più la coltivazione dei terreni, l’allevamento degli animali e quindi la sopravvivenza degli abitanti.
Secondo le stime dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) e dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM), entro il 2050 i profughi ambientali saranno tra 200 e 250 milioni, con una media di 6 milioni di persone costrette ogni anno a lasciare la propria abitazione e spesso il proprio Paese. Lo straordinario aumento di sfollati interni e di profughi, oltre ai cambiamenti climatici che nelle zone equatoriali sono molto più gravi che alle nostre latitudini, è in gran parte dovuto a conflitti scatenati da politiche diffuse e sistematiche di appropriazione di risorse. Dal dopoguerra a oggi, ben 111 conflitti nel mondo avrebbero tra le proprie radici cause ambientali: 79 sono tuttora in corso e, tra questi, 19 sono considerati di massima intensità.
Nonostante le misure fin qui prese per contenere i cambiamenti climatici e l’aggressione alle risorse naturali, l’espulsione dal proprio habitat di ampie quote della popolazione mondiale a causa del deterioramento ambientale è considerata inevitabile dalla maggior parte della comunità scientifica, in assenza di provvedimenti più radicali di quelli presenti. Eppure il fenomeno resta di fatto invisibile alle legislazioni e alla politica. Nemmeno la Convenzione di Ginevra e il Protocollo aggiuntivo del 1967 riconoscono lo status giuridico di chi fugge da catastrofi ambientali, specie se originate da azioni e interventi umani sulla natura.
Negli anni il numero dei e delle migranti, obbligati a spostarsi da una terra all’altra è aumentato in modo vertiginoso. Un fenomeno che ha assunto varie denominazioni: migrantiforzatidall’ambiente (forcedenvironmentalmigrant o environmentally motivate migrant), rifugiati climatici (climaterefugee), rifugiati a causa del cambiamento climatico” (climatechangerefugee), persone dislocate a causa delle condizioni ambientali (environmentallydisplacedperson), rifugiati a causa dei disastri (disasterrefugee), “eco-rifugiati” (eco-refugee), rifugiati ambientali.
L’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni ha proposto questa definizione:
“I e le migranti ambientali sono persone o gruppi di persone che, per motivi imperativi di cambiamenti improvvisi o progressivi per l’ambiente che influenzano negativamente la loro vita o le condizioni di vita, sono obbligati a lasciare le loro case abituali o scelgono di farlo, in maniera temporanea o definitiva, e che si spostano sia all’interno del loro paese sia uscendo dai confini del proprio paese. Tale definizione, però, ha riscosso poco successo, probabilmente a causa della sua genericità. L’IOM, allora, ha adottato una “definizione di lavoro” (workingdefinition), che se possibile allarga ancora maggiormente i confini della definizione, includendo anche chi si inizia la migrazione per legittima paura del deterioramento delle condizioni ambientali in cui vive.”
Si tratta di persone che non possono più garantirsi i mezzi di sussistenza nelle terre di origine per “perdita di habitat”, cioè a causa di siccità, erosione del suolo, desertificazione, inquinamento, salinizzazione delle terre irrigate, perdita della biodiversità, innalzamento del livello del mare, o per calamità naturali come tsunami, inondazioni, terremoti, cicloni, erosione delle coste, incendi. Sono rifugiati ambientali quelli che scappano da conflitti per l’accaparramento delle risorse idriche o energetiche, come lo sono coloro che fuggono dal collasso delle economie di sussistenza in seguito a crisi dell’ecosistema, dovute a cause naturali o attività umane: landgrabbing, l’appropriazione di grandi appezzamenti di terre coltivabili da parte di grandi aziende o governi stranieri, che sottrae terre coltivabili ai contadini locali e contribuisce a farne degli sfollati.
L’espulsione dei contadini dalle loro terre d’origine è determinata anche dalla diminuita competitività dei prodotti dell’agricoltura tradizionale rispetto a quelli con cui la grande distribuzione inonda i mercati locali. La distruzione del commercio locale è favorita dalla rimozione di dazi doganali alle merci in entrata, che i negoziatori internazionali sono riusciti a imporre negli anni in nome del libero commercio con una serie di trattati. Illuminante a questo proposito l’intervento di Vittorio Agnoletto, che ha illustrato le conseguenze dei trattati di libero commercio EPA (Economic Partnership Agreements, 2002 – 2014) sulle economie dei paesi africani: sono perdite di decine di milioni di dollari per paesi come il Burundi ed il Niger.
Questi flussi si aggiungono a quelli causati da guerre e persecuzioni politiche, religiose o etniche, e talvolta vi si sovrappongono in modo inestricabile. É pretestuoso e miope considerare le popolazioni in fuga da condizioni invivibili alla stregua di migranti economici, tuttavia è esattamente ciò che fa la Commissione europea con il cosiddetto “approccio hotspot”, che istituisce due categorie di migranti: i profughi di guerra, ai quali viene riconosciuto il diritto di chiedere protezione internazionale, e i migranti economici, da rimpatriare – con ciò violando il diritto d’asilo.
Ed infine, milioni di persone hanno subìto e subiscono spostamenti forzati per grandi progetti di sviluppo (p.es. costruzione di grandi dighe, in Cina, India, in Etiopia), da cui esse non ottengono benefici, ma anzi la perdita del proprio habitat, con poca o nessuna compensazione. Finiscono spesso nelle periferie povere delle grandi città in condizioni misere, come raccontato da Francesca Casella e Marica Di Pierri.
Sarebbe molto meglio usare le energie nel cercare di ostacolare i processi che continuamente creano nuovi profughi, almeno quelli sotto diretta responsabilità umana, e ce ne sono. Altrimenti, per dirla con Barbara Spinelli, si rischia di fare solo gli infermieri del disastro. Da citare anche l’interessante intervento del diplomatico e studioso italiano Grammenos Mastroieni :“Le soluzioni ci sono e noi abbiamo iniziato a metterle in pratica con progetti in Senegal e Burkina Faso. Oggi si perdono 12 milioni di ettari di terreno all’anno “ma recuperare un ettaro di terreno nelle zone di emergenza costa 120 dollari”. Secondo il diplomatico sono diversi i vantaggi del recupero dei terreni, soprattutto se consegnati alla piccola agricoltura familiare. “Si protegge la biodiversità– commenta –, si mantengono le capacità produttive di quella terra, oltre a creare reddito e lavoro per quelli che oggi sono costretti a migrare”. E’ stato accertato che la produzione agricola a livello famigliare ha un impatto ambientale molto inferiore rispetto all’agricoltura industriale, sopratutto in termini di uso di pesticidi e di consumo d’acqua; inoltre l’agricoltura famigliare ha una produttività molto più elevata e grazie alla biodiversità, insita in questo tipo di produzione, richiede un minore impiego di fertilizzanti e di pesticidi.
Quello che risulta chiaramente, è che dobbiamo passare dalla comprensione dei fenomeni dell’emigrazione ambientale all’azione: soprattutto aprendo nuove possibilità, anche di natura giuridica, per prepararci a un aumento consistente delle popolazioni che fuggono dalle conseguenze dei cambiamenti climatici.
E’ importante che gli stati e le organizzazioni internazionali agiscano più velocemente per sviluppare piani di prevenzione, adattamento e mitigazione dei disastri naturali. Il fenomeno migrazione ambientale è un fenomeno che ci riguarda da vicino e del qual dobbiamo prenderci la responsabilità per tutelare il futuro del nostro Paese e dell’intero Pianeta.
Laura Lincio
Human in Progress.
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